Quando ho visto la versione svedese di Uomini che odiano le donne, ho rivisto tanto thriller americano anni novanta, in particolare il Fincher di Seven e quando fu annunciato un remake diretto proprio da quest’ultimo ho subito pensato fosse la scelta perfetta, che il cerchio si chiudeva.
Sbagliavo però, il Fincher di quei tempi non c’è più, quella combinazione di sporco e glamour, i riferimenti all’estetica gorn e bondage, non fanno più parte del suo bagaglio estetico.
Quel Fincher dal materiale di partenza avrebbe tirato fuori un capolavoro, il regista di oggi ha fatto solo un thriller poco superiore alla media americana.
La sceneggiatura di Steven Zaillian appiattisce il più possibile il già semplice materiale di partenza rendendo ogni dettaglio investigativo a prova di americano stupido, tagliando personaggi e background vari per snellire a più non posso la storia e invece riprendendo dettagli per lo più inutili dal libro per dare comunque una certa piega buonista (la figlia che aiuta a risolvere il caso grazie alla sua conversione cattolica).
Tutto più leggero, la violenza è ridotta, il passato di Lisbeth Salander alleggerito (e giusto accennato in qualche battuta del finale), così come il suo look: tutti la guardano come se fosse un mostro quando in realtà è una ragazza bellissima con un paio di piercing e un abbigliamento un po’ alternativo.
Fincher non si rivela più capace di ritrarre il marcio e si limita a girare il film in modo raffinato e tecnicamente impeccabile senza però i guizzi di The Social Network.
Dai 13 milioni del film svedese ai 90 dell’americano, come l’aumento del budget, tutto diventa più grande e lussuoso: le impeccabili case svedesi che sembrano uscite da una rivista di arredamento, i costumi fighetti, quasi un H&M più raffinato, e la bellissima fotografia gelida che ritrae tutti in modo pulito e asettico. Tutto è più fighetto anche da un punto di vista di sfacciato product placement con immancabili supporti Apple così di tendenza ma al contempo inguardabili in mano ad un personaggio che dovrebbe essere un serio hacker e non un grafico hipster.
Gli elementi più interessanti arrivano dalla colonna sonora: se nel caso di The Social Network trovavo il lavoro di Reznor e Ross era inutilmente invasivo e forzatamente cupo, questa volta invece le sonorità gelide del duo arredano alla perfezione il film, dando un grande fascino ad intere sequenze che altrimenti sarebbero risultate asettiche.
Curiosa la decisione di lasciare le vicende in Svezia, un po’ come dire “quelle cose brutte non succedono mica in America”, quando invece il passaggio agli stati uniti forse avrebbe giovato (vista la loro “cultura” di serial killer), così come sarebbe uscito quasi naturale un parallelo tra Julian Assange e il protagonista Mikael Blomkvist ma niente. Non c’è un minimo di innovazione rispetto all’originale, né un tentativo di autorialità da parte di Fincher, solo semplificare e riproporre in una lingua diversa lo stesso prodotto.
Visto il risultato è comunque da apprezzare la decisione di non mettere attori troppo famosi a corredare il cast, fatta eccezione per Craig e Plummer, ed utilizzare per lo più attori anonimi e volti poco conosciuti, compresa la buona ma non eccezionale Rooney Mara che dimostra che la potenza del personaggio potrebbe lanciare un po’ qualunque attrice.